il viaggio: dentro Melville e oltre


Che cosa spinge un ragazzo di vent’anni a uscire di casa zaino in spalla, deciso a girare il mondo? Di preciso non saprei, perché a vent’anni avevo altro per la testa, ma immagino che le motivazioni siano sempre le stesse, valide qualche decennio fa come ai tempi di Melville, come oggi: insofferenza per la quotidianità, bisogno di avventura, reazione alla prospettiva di un futuro incerto, ricerca di un surrogato dei riti di passaggio per l’ingresso nell’età adulta… Certo è che, a parità di motivazioni, quando il ventiduenne Herman Melville si imbarca come marinaio semplice sulla baleniera Acushnet – è il gennaio del 1841 – viaggiare è una esperienza ben diversa da quella di oggi: niente voli low cost, niente guide Lonely Planet, niente aggeggi elettronici da tenere in tasca per sapere a che ora passa il treno o come prenotare un letto all’ostello. A quei tempi, salire su una nave come la Acushnet voleva dire davvero gettarsi la realtà alle spalle, affrontare l’ignoto, non essere nemmeno sicuri di tornare sani e salvi, comunque non prima di anni e anni di vita di stenti. Un’esperienza che, a voler tentare a tutti i costi un paragone, non richiama alla mente le vacanze dei nostri universitari ma piuttosto i viaggi (su una carretta del mare, nella stiva di una nave, fra le casse di un Tir, sotto la neve di un valico di montagna, attraverso un campo minato, oppure in aereo con un visto pagato a caro prezzo) dei ragazzi delle periferie del mondo decisi a venire qui a vedere come funzionano i centri del potere. Ma – ripeto – è un paragone molto approssimativo.
Da un certo punto di vista, a Herman le cose vanno bene: torna sano e salvo, dopo “soli” quattro anni. Ma da un altro punto di vista le conseguenze non tarderanno a farsi sentire: quel viaggio segna la sua vita. Non solo lui non è più lo stesso, non solo non riesce a rientrare nella routine, ma per tutta la vita rimarrà – se non un disadattato – un estraneo nel suo mondo: “sempre troppo vicino e sempre troppo lontano”, come gli faccio dire alla fine del romanzo. A decretare questo destino è sì il viaggio, ma ancor più il resoconto del viaggio. Nel 1846 Herman consegna alle stampe il suo primo testo narrativo, Typee, e da quel momento la sua strada è segnata. Ne rimane prigioniero molto più a lungo di quanto non fosse stato prigioniero degli omonimi cannibali.
A far scattare la trappola è il successo stesso del libro, che in poco tempo diventa un best seller, un caso letterario. Il ventiseienne Herman si ritrova incollati addosso i panni dello scrittore di fama, tutti gli occhi sono puntati su di lui. Possibile – si chiedono lettori e critici – che sia tutto vero quello che ha raccontato? Non s’è inventato niente? Quanto è durato il suo soggiorno fra i selvaggi, quattro mesi o quattro settimane? E sono davvero così libere di costumi le ragazze indigene? E Toby? Vera anche quella storia?
Herman si trova invischiato in una ridda di polemiche che non gli piace per niente, quando in suo soccorso sbuca lo stesso Toby, cioè Richard Tobias Greene, che dopo la parentesi polinesiana è invece rientrato nei ranghi e vive tranquillo a Buffalo. Letto il libro, è lui stesso a confermare parola per parola il racconto dell’amico, permettendogli di pubblicare a pochi mesi di distanza una seconda edizione con un’appendice dedicata alla fuga di Toby stesso. Risultato: vendite alle stelle.
Tutti chiedono un sequel e il giovane scrittore non si può tirare indietro. Così l’anno successivo sforna Omoo, che ottiene lo stesso successo di Typee, accende le stesse polemiche, stimola la stessa pruderie (Herman nel frattempo si è sposato e un giornalista si pone il problema di come possa la neo signora Melville accettare l’idea che prima delle nozze il marito se la sia spassata a quel modo con le polinesiane…)!
Nessuno fa caso ad alcuni piccoli dettagli che indicano come Herman si presti con sempre minore convinzione a sostenere il ruolo che l’ingranaggio “mediatico” dei suoi tempi gli impone. Già in fase di stesura ha avvertito l’editore di “non aspettarsi un altro Typee” e se qualcuno leggesse Omoo con attenzione si accorgerebbe che la preoccupazione principale dell’autore è quella di scrivere qualcosa di diverso dal primo romanzo, da giudicare per quello che contiene e non per i rimandi a quello che lo precede o gli sta attorno. Non per niente in Omoo, al di là della nota introduttiva, non si nomina una sola volta il soggiorno alle Marchesi, anche quando alcune coincidenze (come la ricomparsa della Reine Blanche a Tahiti) lo imporrebbero.
Ma i lettori sono troppo impegnati a seguire i vagabondaggi di Omoo, moderno picaro, per soffermarsi su simili dettagli. A parte la curiosità puritana e il gusto dell’esotico, a conquistarli è il discorso sulla triste sorte degli indigeni corrotti dalla civiltà dei bianchi: una critica di eredità illuminista che Melville non circoscrive alla storia polinesiana, visti i frequenti richiami ai disastri provocati nelle isole Sandwitch dalla presenza statunitense, come pure i paragoni fra i polinesiani e i nativi d’America; ma proprio questa critica quanto più è sferzante tanto più fa crescere il successo dei due testi (gli americani hanno sempre avuto bisogno della “coscienza infelice” dei propri scrittori per sentirsi liberi di perseguire poi con i dovuti sensi di colpa le proprie mire di conquista). Insomma, per un motivo o per l’altro il pubblico stravede per Melville e a gran voce chiede un nuovo sequel.
Ma Herman non è più disposto ad accontentarli. A ruota libera scrive il labirintico Mardi, ponendo all’editore il diktat di non azzardarsi a scrivere nel frontespizio “opera dell’autore di Typee e Omoo”. Ai lettori dà anche l’esplicita avvertenza che non di narrative si tratta, ma di romance, un romanzo di pura fantasia: “Non molto tempo fa, avendo pubblicato due resoconti di viaggi nel Pacifico che da più parti vennero accolti con incredulità, mi venne l’idea di scrivere un vero romanzo di avventure polinesiane e di pubblicarlo come tale, per verificare se la narrativa di invenzione venisse accolta come cosa vera: l’esatto contrario, in un certo senso, della mia esperienza precedente”. Partendo da questa premessa si sbizzarrisce per ottocento pagine in una magmatica opera in cui si aggrovigliano simbolismi, metafore, digressioni di ogni sorta, citazioni erudite, tutto al servizio di un racconto così enigmatico da scoraggiare anche il più bendisposto dei lettori. Risultato: stroncature generali e l’ unanime invito all’autore a tornare nell’alveo dei libri precedenti.
Si apre dunque a questo punto una sfida fra Melville e i suoi contemporanei, una frattura che non riuscirà più a ricomporsi: tutte le opere successive nasceranno dalla sua caparbia volontà di andare contro i gusti del pubblico e le aspettative dei critici letterari. Pubblico e critici da parte loro le accoglieranno con sempre più aperta freddezza, così lui, per reazione, finirà per chiudersi in un volontario e aristocratico silenzio, in un guscio di oblio che troverà estrema espressione artistica in quell’elogio del nulla che è The Encantadas.
Gli stessi motivi che faranno perdere a Melville la scommessa con i suoi contemporanei decreteranno la sua vittoria nel secolo successivo, quando la sua vena visionaria e le sue inquietudini risulteranno purtroppo chiare, disvelate, accessibili a tutti, ormai parte del sentire comune. Così nel Novecento l’autore di Moby Dick, di Billy Budd, dello scrivano Bartleby potrà essere finalmente riconosciuto fra i grandi della letteratura. Le sue opere verranno lette e studiate in tutto il mondo, tradotte a volte in modo straordinario, come nel caso a noi vicino di Pavese.
Dal massimo dell’indifferenza si passerà al massimo dell’interesse, come se il Novecento si volesse impossessare di Melville, con tutti i rischi che un simile atteggiamento sempre comporta. In pratica, di fronte a una produzione letteraria di quel calibro, ognuno si ritaglierà il “pezzo” più vicino alla propria sensibilità e lo sfrutterà per i propri fini. A farne le spese sarà soprattutto il capolavoro, Moby Dick, che credo sia l’opera più saccheggiata della letteratura moderna, dalle infinite riduzioni per ragazzi alle sempre più libere versioni cinematografiche, teatrali e musicali, come quella recente di Laurie Anderson.
Appropriazioni indebite? Non direi. A mio parere, anzi, sintomo di come un testo rimanga vivo nel suo “cambiare pelle” come un rettile, nel suo rimbalzare da un autore all’altro, da un’epoca all’altra, nel passare dalla parola scritta ad altri linguaggi espressivi. Perché l’appropriazione non sconfini nel travisamento occorre solo che chi la compie giochi a carte scoperte. E dal momento che anche L’oceano cambia colore rientra nel campo delle appropriazioni, scopro subito le mie.

Come ho già detto, si tratta di una riscrittura, appartiene cioè a quella “letteratura al secondo grado” che vanta precedenti illustri e che Gerald Genette ha analizzato nel corposo saggio Palinsesti, dove il richiamo del titolo ai palinsesti medioevali implica già l’idea dello “scrivere sopra” un precedente testo. Senza scomodare la critica strutturale, comunque, dirò che la mia è per metà una riscrittura interna a Melville, per metà esterna.
Interna perché dai due originari resoconti di viaggio mi sono proposto di ricavare un romanzo, utilizzandone con sempre maggiore libertà le pagine che già in sé offrivano spunti narrativi. Ho preso qualcosa anche da Billy Budd e mi sono concesso altre piccole libertà: l’omaggio a Pavese con la ballata del baleniere ripresa da Moby Dick, l’introduzione di un personaggio che ricorda un Gauguin sbarcato in Polinesia con cinquant’anni di anticipo…
Partendo da questi frammenti ho cercato di costruire un testo che avesse una struttura, uno sviluppo, alcune tematiche di fondo e dei personaggi credibili: tutte cose che non si possono chiedere a un diario di viaggio, frammentario e casuale come l’esperienza stessa del viaggiatore che registra via via quello che gli accade, molte volte senza coglierne il senso. Per esempio ho cercato di dare risposta agli interrogativi che Typee lascia insoluti: perché gli indigeni trattengono a tutti i costi Tommo mentre lasciano fuggire Toby? Perché di punto in bianco anche lui può andarsene? Del rapporto fra i due amici, della scomparsa di Toby e della sua ricerca da parte di Tommo ho fatto il motivo centrale del romanzo e il filo conduttore dei vagabondaggi tahitiani della seconda parte.
Soprattutto ho cercato di dare spessore narrativo a quelli che Melville vedeva con sincera simpatia ma sempre dall’esterno, dall’alto della sua visione rousseauiana: i polinesiani. Se in Typee e Omoo erano mute presenze, ho cercato di fare di loro i veri protagonisti de L’oceano cambia colore, introducendo personaggi nuovi e cercando di “dare voce” a quelli di Melville, al punto da inventare una lingua che permettesse loro di parlare. Sempre per lo stesso motivo il romanzo si conclude con la rivolta antifrancese dei tahitiani, che in realtà scoppia alcuni anni dopo il viaggio di Melville e alla quale lui si limita ad accennare in una nota a pié di pagina.
Sono stato talmente convinto di fare dei polinesiani i protagonisti del mio romanzo che a poco a poco loro mi hanno preso la mano, mi si sono imposti, a un certo punto quelli di cui parlavo non erano più gli indigeni tatuati delle Marchesi o le tahitiane infagottate alla moda missionaria: erano i ragazzi di Papeete che invadevano le strade della città e bruciavano i simboli del potere occidentale per protestare contro i test nucleari. Senza accorgermene era la loro storia che stavo scrivendo e cercavo di farla interagire con quella dei loro antenati del primo Ottocento. Dalla riscrittura interna a Melville ero passato all’esterno, all’oggi, e per parlarne i documenti di cui avevo bisogno non erano più le pagine di Typee e Omoo. Erano appunto quelli che trovate nella sezione i documenti.